Quattro alunni della II A di Dogliani premiati al Concorso 88.88

Data:

lunedì, 27 maggio 2019

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Domenica 12 maggio Agnese Cerutti, Noemi Rovella ed io siamo stati invitati al Salone del Libro di Torino per prendere parte alla cerimonia di premiazione del concorso letterario 88.88.

Insieme ad Angela Ajraldi, assente per impegni sportivi, abbiamo ottenuto, dopo aver inviato i nostri racconti brevi di genere horror, un attestato di riconoscimento assegnato dall’associazione Yowras (acronimo di Young Writers and Storytellers).

Tutto inizia alla fine del 2018, quando la professoressa Cabutto ci ha proposto di partecipare al concorso. Solamente il 12 aprile 2019 sono stati pubblicati i risultati.

Sono stati due mesi di grande ansia e speranza, ma alla fine abbiamo trovato il nostro nome scritto nell’elenco dei premiati.

Accompagnati dai genitori, alle ore 13.00 eravamo nella sala Arancio, all’interno del Lingotto Fiere, per incontrare la presidente dell’associazione Nicoletta Fabrizio, il vicepresidente Paolo Montaldo e alcuni membri della giuria. Inoltre un fotografo professionista ha documentato tutta la premiazione, cogliendo gli attimi più significativi.

Dopo aver premiato i vincitori, aver letto le trame dei racconti e consegnati i riconoscimenti, la presidente ci ha accompagnati presso lo stand dell’Officina della Scrittura, allestita per la premiazione, dove siamo stati intervistati e, ad uno ad uno, abbiamo spiegato in poche parole la trama del testo inviato e la motivazione per cui l’avevamo scritto. Erano presenti anche le rappresentanti dell’azienda Aurora, sponsor del premio, e del Museo Officina della Scrittura, Cécile Angelini, che ci ha consegnato dei coupon per accedere gratuitamente al museo.

In conclusione, io e le mie compagne siamo tornati a casa pieni di orgoglio e di felicità, per la nuova gratificante esperienza.

                                                                                              Carlo Zabaldano, IIA

 

https://www.facebook.com/pg/YOWRAS/photos/?tab=album&album_id=2136613636454808   (qui si possono vedere altre foto)

 

A seguire i 4 racconti premiati:

– La notte dell’8 Agosto, di Agnese Cerutti;

– Equivoci, di Noemi Rovella.

– La paura fa 80… anzi no, fa 90, di Angela Ajraldi;

– Il grande ritorno, di Carlo Zabaldano;

 

 

La notte dell’otto agosto

di Agnese Cerutti

Era la sera dell’8 agosto 2018, appena un anno fa.

Da mesi qualcosa, che nessuno, comune cittadino o esperto poliziotto, era riuscito ad acciuffare, si spostava da una parte all’altra del pianeta, uccidendo chiunque, che camminasse per la strada o che stesse tranquillo a casa propria. I cadaveri avevano il viso pallido e pietrificato dalla paura e portavano un segno, inciso profondamente nella pelle come da una punta metallica incandescente, sulla parte destra della fronte: una piccola e semplice X, ma nitida. Decisa. Mortale.

La cosa più inquietante e pericolosa era che l’assassino si spostava velocemente, troppo velocemente, e giungevano sue notizie da ogni parte del pianeta, quasi contemporaneamente. Recentemente era stato in Francia, poi in Brasile, in Russia, e in Italia. Era già stato qualche volta nel mio paese, e la popolazione, anche se non dimezzata, era diminuita, parecchio. Per fortuna, nel mio quartiere, non c’erano mai stati omicidi del genere.

Quella sera ero comodamente seduta sul divano, in attesa dell’arrivo dei miei genitori (che ritenevo piuttosto irresponsabili nel lasciarmi a casa, sola, con i tempi che correvano), con la porta chiusa a doppia mandata.

Faceva caldo nonostante l’ora (le nove di sera circa) e, con una bottiglia di acqua fresca accanto, guardavo la televisione che trasmetteva un interessante documentario sugli animali dell’Antartide.

Ad un tratto un brivido mi percorse la schiena. Con la coda dell’occhio notai qualcuno fuori dalla finestra. Una persona camminava sul marciapiede davanti a casa mia. Da sotto il cappuccio proveniva solo il leggero scintillare dei denti scoperti in un ghigno.  Non mi sentivo affatto tranquilla, quindi girai qualche volta la chiave nella toppa: sempre meglio essere prudenti. Poi corsi in soffitta: chiunque fosse, non aveva chiaramente buone intenzioni.

Ero quasi arrivata in soffitta, quando udii un forte tonfo dal salotto. Avrei giurato su qualsiasi cosa: l’assassino era entrato. Se fossi riuscita a fargli credere che la casa fosse deserta, sarei stata salva. Percorsi gli ultimi gradini velocemente. La soffitta era abbastanza buia, ma dal lucernaio proveniva, fioca, la luce un po’ smorta che precede il crepuscolo. Entrai in un armadio che conteneva giacche e pellicce che sembravano di un’altra epoca. Dopo minuti mi pentii: morivo di caldo. Ma non avevo scelta, e mi rannicchiai terrorizzata sul ripiano più basso, sperando che non cedesse.

L’unica cosa che sapevo era che dovevo cercare di calmarmi e attendere l’arrivo dei miei genitori. Ma non ci riuscivo e i rumori provenienti dal piano inferiore non contribuivano a calmarmi. Si sentiva raspare, scricchiolare, ma quei versi apparentemente “normali”  sembravano fatti con una cattiveria disumana. Tuttavia  espressi un desiderio e feci un bel respiro.

L’orologio del campanile suonava le dieci. Pensai che fosse un sogno. Chiusi gli occhi, e per un attimo fui più che convita di dormire, ma, riaperti gli occhi, mi resi conto che era tutto vero.

Passò un’altra ora: non udivo più alcun rumore e decisi di uscire dall’armadio. L’aria stantia della soffitta sembrava fresca e pulita come il vento di montagna, rispetto all’odore di muffa dell’armadio. Ma dal piano inferiore giungeva il rumore di passi frettolosi. Mi nascosi dietro ad uno scatolone; era rischioso, molto rischioso, ma non potevo più resistere in mezzo a quelle pellicce.

Per un po’ tutto tacque nuovamente, fin quando un urlo sovrumano mi ruppe i timpani.  Udii uno scricchiolio di piedi pesanti che calpestavano i gradini di legno della scala. Ma poi li sentii che si allontanavano, e che percorrevano il piano terra, fiochi e lontani, poi di nuovo il piano superiore, e poi nuovamente che salivano i gradini della scala che conduce in soffitta.

Mentre tutta la mia vita mi passava davanti e mi preparavo alla morte, udivo molte voci, provenienti dal cortile. Una era quella di mia mamma… ma ora udivo i passi che percorrevano la parte opposta della soffitta e si avvicinavano sempre più al mio nascondiglio.  Sbirciando tra uno scatolone e l’altro, vidi dei piedi che lentamente, molto lentamente, con una lentezza snervante, si avvicinavano.

Da dietro allo scatolone sbucò la canna di una pistola, seguita da un braccio e poi dal corpo di un uomo grande e grosso, in divisa. Il mio cuore lentamente tornò a battere normalmente, e pensai che quello fosse il momento più bello della mia vita: era un poliziotto.

– Ti abbiamo cercata per tutta la casa! – esclamò l’uomo, riponendo l’arma nella custodia.

– Ah… ah sì? – chiesi, ancora intontita dallo spavento.

– Certo! Vieni, vieni, l’assassino se n’è andato. Tua mamma è preoccupatissima.

Seguii l’uomo giù dalle scale e arrivammo all’apertura rettangolare che qualche ora prima aveva ospitato la porta d’ingresso. Fuori da casa mia c’erano ben otto auto della polizia, con tutti i lampeggianti accesi, e molte persone curiose che volevano sapere cosa fosse accaduto. Otto agenti della polizia stavano di guardia accanto a una volante, all’interno del quale s’intravedeva una figura col capo chino. Attraverso il finestrino oscurato non s’intuiva molto del suo aspetto, ma sembrava avere una pelle rossastra.  Tuttavia, non ci pensai a lungo: ero troppo stanca e spaventata.

Mia mamma e mio papà mi corsero incontro.

– Non avremmo dovuto lasciarti da sola a casa, non so come abbiamo fatto ad essere così stupidi… E sei stata coraggiosissima… – disse mia mamma abbracciandomi fortissimo. Sorrisi pensando al modo in cui avrei potuto ricattarli, usando come scusa la loro irresponsabilità, ottenendo fantastici regali… ma non ebbi tempo di dire niente che anche mio papà mi abbracciò, farfugliando qualcosa che non capii.

Quando i miei genitori ebbero finito di complimentarsi, di abbracciarmi e di sbaciucchiarmi, mi avvicinai educatamente a due poliziotti che stavano discutendo sull’accaduto, scribacchiando su un taccuino. Attesi che la loro conversazione terminasse e domandai a quello che fra i due mi sembrava più disponibile e simpatico:

– Scusi… Volevo chiederle, la… persona che…

Non mi lasciò finire la frase:

– Be’, ragazzina, io non direi persona… Non vorrei spaventarti, ma… Diciamo che te la sei…vista brutta: nella volante c’è la creatura che ha provocato tante vittime in tutto il mondo negli ultimi mesi – rispose quasi in un sussurro.

– Ah.- feci io, – e… che creatura è?

– Ancora non lo sappiamo… Da mesi delle agenzie specializzate stanno studiando la situazione e l’origine della creatura, ma nessuno sa ancora niente. Alcuni dicono che sia venuta per sterminare l’umanità, ma io non credo molto in queste cose. Deve esserci una spiegazione razionale, e quando si scoprirà, ve lo comunicheremo.

– Grazie mille – risposi.

Tornai dai miei genitori e sorrisi: era tutto finito. O almeno così credevo.

La volante all’interno della quale si trovava il killer cominciò a muoversi leggermente di qua e di là, come se una mano invisibile la stesse scuotendo, e dal suo interno provenivano rumori sinistri e soffocati versi angoscianti. L’auto iniziò a sbatacchiare più forte; se ne accorsero anche i miei genitori e ovviamente i poliziotti di guardia all’auto, che guardavano attraverso il finestrino, orripilati. Gli altri otto poliziotti accorsero per tenere a bada la… cosa. La vettura iniziò ad andare su e giù, come dotata di vita propria. Come un palloncino, la carrozzeria si dilatò e “lievitò” sempre di più. I finestrini andarono in frantumi e infine… l’auto esplose, nel senso letterale della parola. I poliziotti vennero sparati a metri di distanza. Gli spettatori più vicini si allontanarono velocemente, ma chi fu troppo lento volò dall’altra parte della strada.

Dalle macerie dell’auto si sollevò una nube di fumo nero e denso che si alzò nel cielo stellato. Lentamente e gradualmente la massa gassosa diventò scarlatta. In quella grande nuvola si intravedevano lineamenti umani; be’, non proprio umani. Sembrava un viso, ma… la bocca sembrava larga, troppo larga, e piena di denti, e gli occhi folli. Dalla nube provenivano gli stessi suoni striduli e angoscianti che avevo sentito poco prima. Questi versi inquietanti si trasformarono in una risata tremenda. Mi vennero i brividi. E poi un sibilo, debole, ma chiaramente udibile a tutti: – Questa notte vengo a trovarvi.

E infatti, quella notte, nessuno dormì, disturbato da sogni strani e angoscianti: un sussurro che andava perdendosi nel silenzio preannunciava la fine del mondo e ripeteva una data, ma sussurrata così lievemente da non essere comprensibile. Tutti conobbero la verità al mattino, quando al risveglio notarono una scritta scarlatta sul muro della propria camera da letto: 8-8-8888.

La creatura era stata scoperta. L’umanità non era ancora stata distrutta. E la data era stata spostata… all’otto agosto ottomilaottocentoottantotto.

 

Equivoci

di Noemi Rovella

Erano ormai otto ore che mi nascondevo in soffitta, acciambellata fra ottomila cianfrusaglie, in un armadio che sapeva di muffa. Possibile che il serial killer, di cui tutti parlano, sia nascosto proprio in casa mia?

Non riuscivo più a respirare, altro che acari e polvere, così uscii dall’armadio, ma rimasi sempre all’erta.

Cercando di fare meno rumore possibile, mi avvicinai alla finestra e osservai dall’alto il mio quartiere. La casa dei vicini aveva le luci accese. Probabilmente Teresa stava preparando la cena, mentre suo marito potava i rami di un salice piangente con la motosega.

Avrei dato di tutto per essere a casa loro, piuttosto che nella mia soffitta puzzolente, pronta a morire da un momento all’altro.

Ritornai nel mio nascondiglio, cercando di trattenere il respiro e rimanere immobile. Sentii la gola secca e sussultai sentendo un minaccioso clangore.

Estrassi dalla tasca il telefono e diedi una fugace occhiata alle notizie. A quanto pareva, il killer era nascosto nei boschi dell’Albania, quindi non poteva essere qui in Italia, qui, a casa mia…

Mi stavo forse immaginando tutto? Guardai il mio orologio: faceva le 20:08. Fissando il lento scorrere delle lancette, mi tranquillizzai e realizzai che il killer non poteva certo essere al piano di sotto.

Non feci in tempo a prendere una boccata d’aria, che udii un tonfo spaventoso. Misi da parte tutta la calma e tutto il buon senso che ero riuscita a racimolare e mi lasciai prendere dal panico: c’era davvero ancora qualcuno, là sotto!

La tentazione di chiedere aiuto era forte, difficile da ignorare, ma se avessi fatto solo il minimo rumore, il serial killer mi avrebbe trapassata da parte a parte molto prima dell’arrivo dei soccorsi. Poi pensai che, se fossi riuscita a far credere all’assassino che la casa fosse deserta, allora sarei stata certamente salva.

Ma poi capii che non potevo restare lì per tanto tempo, settimane o forse mesi, senza cibo né acqua.

Mi sentivo sudata, il panico mi aveva invasa nuovamente.

“Calma, devo restare calma” continuavo a ripetermi, ma la situazione non migliorava.

L’orologio del campanile di San Rocco rintoccò le ventidue.

Ero lì, sola, al buio e spaventata, spaventata a morte.

Il desiderio di chiamare le autorità si faceva sempre più forte.

Era passata un’altra ora. Avevo braccia e gambe anchilosate.

Tutto taceva, non si udiva il più piccolo rumore. Scampato pericolo.  “Uscire? Sì, devo uscire” pensai.

Scrutai di nuovo fuori dalla finestra e vidi che Luigi, il vicino, aveva finito di potare l’albero e stava caricando la motosega sulla sua Ford scarlatta, per restituirla al giardiniere. Uscì dal cancello della sua villetta e si avviò dalla parte opposta della mia casa, verso il centro del paese.

Erano le 22:18 quando ritornai al mio nascondiglio.

Dopodichè sentii un ruomore: cos’era stato?

Avevo paura, mi tremavano le gambe e cercai di farmi piccola piccola contro la parete polverosa dell’armadio.

Alle 22:50 sentii uno scricchiolio sinistro sulle scale. “Fa’ che non sia il killer, fa’ che non sia il killer!” pensavo, sudando freddo.

Il rumore di un’auto, la Ford dei vicini. Se solo potessero sentirmi…

E invece ero io che sentivo Luigi. Sentivo che emetteva delle urla disumane e poi… una voce fredda che minacciava: “Adesso vai là dentro e fai ciò che ti ho detto, o per te e per tua moglie è finita!” Ancora urla di uno che è sotto tortura, e poi silenzio.

“Ora ci sono due killer?! Pensavo, figurandomi nella testa la scena della mia morte. Soffocai a stento un pianto silenzioso e poi mi rassegnai: forse mi stava cercando, forse mi aveva sentita, era giunta la mia fine. Non avrei mai immaginato di morire così.

Erano le 22:38 e dei passi si facevano vicini, molto vicini. E poi… il rumore di una motosega, i trucioli della porta che schizzavano ovunque e un urlo belluino. D’impulso chiamai la polizia, correndo a nascondermi il più lontano possibile dalla porta, illudendomi che più lontano mi trovassi dal serial killer, più in ritardo sarebbe arrivato il mio ultimo respiro.

Il killer, gemendo, esaminava ogni angolo della soffitta. Stava per raggiungere il mio nascondiglio, quando le sirene della polizia annunciarono la mia ipotetica salvezza. L’assassino emise un urlo straziante e rivolse la faccia, coperta da una maschera, verso la porta, da cui spuntarono i poliziotti con la pistola puntata contro il killer. “Vi prego, non sono io, non sono io il killer! Mi ha obbligato!” supplicò l’uomo, ma la polizia lo ammanettò e lo costrinse con la forza a sedersi sulla macchina, diretta in prigione.

Tirai un sospiro di sollievo e guardai i poliziotti andarsene.  Ma avevo esultato troppo in fretta… Dalla giacca del killer era uscita una lettera che diceva così: “Non esultare, non è finita. Ho obbligato quell’ottuso del tuo vicino a fingersi il killer!  Ora che la polizia pensa di aver preso l’assassino, io posso muovermi liberamente e sta certa che verrò e allora vedrai in faccia la morte!” Non appena chiusi il biglietto vidi davanti a me il vero serial killer, la motosega coperta di sangue che rifletteva la flebile luce della luna. E poi… non vidi né sentii più niente…

LA PAURA FA 80…anzi, no, fa 90!

di Angela Ajraldi

 

Perfetto, tutto sommato, se tutto va bene, per le tre di questa mattina sarò ancora qui, sì, magari stesa a terra e con il cuore fermo! Ovviamente è del tutto normale, certo, figurati, a tutti capita di essere in una stanza buia, da sola, aspettando che entri nella camera chissà quale mostruosa creatura! Va bene, basta scherzare, la situazione non è da prendere alla leggera.

Accidenti, detto fatto. La porta sta già scricchiolando per poi aprirsi! Incredibile quanto le porte siano cattive, quando una persona cerca di stare calma. Porta crudele, stai sicura che un giorno di questi ti faccio visitare per bene il camino!

Dopo questo pensiero, ovviamente, la porta si apre: “Cara, sono io, la tua mamma, esci fuori e vieni a salutarmi.” Ma certo, e già che ci sono ti porto anche un coltello, per comodità: ma scusa, ma chi vuoi prendere in giro? La voce non assomiglia neanche lontanamente a quella della mia vera madre. Mi crede veramente così ingenua?

“Vieni fuori, che tanto ti trovo, piccola peste!” Ha già cambiato tono: avevo ragione, ha il tono di uno che minaccia, senza scrupoli. Cavolo, sta per passarmi davanti, fra poco mi troverà e… chissà che cosa capiterà… chissà, magari invece è un unicorno! Ok, fine degli scherzi: “Ma che cosa? Madre!?” “Eh, certo, chi credevi che fossi?” Wow, un po’ meno convincente, no? Certo nella sua faccia c’era qualcosa che non mi convinceva e non era la sua voce. Tra l’altro: come no, tranquilla, ti credo sicuramente, come se non avessi notato tutta quell’esitazione! Uffa, è proprio deprimente essere trattata da imbecille: “Guarda che io non sono così stupid…” non sono riuscita a finire la mia frase che la sua faccia si sta completamente aprendo: “Santo cielo, che schif…”. Oh no, ora si sta aprendo la muscolatura: non è una faccia, ma un’enorme bocca! È diventato un grosso ammasso di carne informe, in cui si distinguono solamente la sua bocca di misura spropositata e i suoi denti affilati. Però mi sto iniziando ad innervosire: va bene che sta succedendo un pasticcio, ma come osa interrompermi sempre? Comunque, fra poco non parlerò mai più: la bocca di quel coso è sempre più spalancata!

Voglio dire qualcosa prima di morire (è un classico) ma non mi viene in mente niente di intelligente, anche se non è che di solito dica cose tanto argute: “Non per offenderti, boccaccia, ma: mai pensato di lavarti i dentoni?” L’unica cosa “umana” rimasta in quel coso era la bocca, ma nel vero senso della parola; c’è anche qualche vecchio ossicino qua e là, in mezzo ai denti.

D’un tratto il mostro si squarcia davanti a me: “Cosa ci fa qui la mia nipotina?”. “Nonno!?! Dopo di questo non dirò più sei un brutto bacuc… ehm, volevo dire: ho sempre saputo che saresti corso a salvarmi! Ma non pensavo che ti saresti messo a fare il taglialegna!”. Corso a salvarmi, eh? O almeno così pensavo, anche se sotto sotto sapevo che c’era qualcosa che mi sfuggiva: come faceva mio nonno a sapere esattamente dove fossi? Anzi, come faceva ad essere qui, se era andato via con mamma a fare la spesa? Tra l’altro: a quanto ne so, mio nonno non saprebbe usare un coltello da cucina, figurati un’accetta, e anche la sapesse usare, noi non ne abbiamo… a meno che non si trovino liberamente al mercato! Oltretutto, mio nonno non mi ha mai voluto bene più di quanto un leone vuole bene ad un topo (insomma non sono neanche una formica per lui.) Come mai questo improvviso cambiamento? Forse mio nonno soffre di sbalzi d’umore radicali? No, è decisamente impossibile! Oppure… sta cercando solo di proteggere una preda da un suo simile? Esattamente, si comporta come l’altro mostro, ma lui termina il suo compito. Non so come quelle sottospecie di creature possano trasformarsi in un individuo a scelta e perché proprio a me dovesse succedere una cosa simile, ma so che avrei ancora voluto raccontare il seguito della vicenda, come ho fatto finora, però… i morti non parlano!

 

 

 

 

 

8888: il grande ritorno

di Carlo Zabaldano

Chissà come sarà il mondo tra settemila anni?

Questo interrogativo era un mio pensiero ricorrente, dato che si diceva che, se non eri felice del presente, il futuro ti avrebbe riservato tante soddisfazioni.

Comunque, la mia vita andava avanti e questa domanda non me la posi più fino a quando, un giorno, mio zio mi regalò il libro “1984” di George Orwell, riguardante il futuro immaginato da un uomo degli anni Quaranta del XX secolo.

Quella sera stessa iniziai a leggerlo e, verso mezzanotte, mia madre venne a spegnere l’abat-jour e ad augurarmi la buonanotte.

La storia raccontata da Orwell stava girovagando nella mia mente e questo mi turbava, poiché le sue idee si erano realizzate: e se si fossero realizzate anche le mie?

Così, anche se tardi, mi addormentai. Mi risvegliai grazie ai raggi del sole che filtravano dalla finestra, anche se di solito la luce entrava alle mie spalle e non di fronte, ma non ci feci tanto caso, poiché dovevo andare in bagno e volevo soffiarmi il naso, visto che ero raffreddato da qualche giorno.

Così mi alzai, anche se controvoglia e, con un po’ di sorpresa, notai che le pareti sembravano piene di pannelli solari, ma essendomi appena svegliato, pensai di averli sognati.

Arrivai in bagno e mi diressi verso il lavandino, ma non trovai altro che pannelli solari e pacchi pieni di bustine, proprio al posto dei sanitari.

Allora strappai un lembo del mio pigiama, che si disfò in piccoli straccetti e soltanto qualche minuto dopo capii il perché. Era fatto di un materiale dalla consistenza a metà tra quella della carta stagnola e della carta di giornale.

Tornai quindi in quella che fino a qualche ora prima doveva essere la mia camera da letto.

Quando mi risvegliai, mi ritrovai dentro ad uno scatolone imbottito di buste morbide, dove avrei ancora dormito comodamente a lungo.

Seguii un lungo e scuro corridoio fino ad arrivare ad una porta triangolare, dalla quale uscii.

Fuori il mondo era come il mio, ma non mi trovavo a casa, sembrava di essere in una grande città, forse una metropoli cinese come quelle che vedevo di solito in televisione.

Non mi ero sbagliato: mi trovavo a Pechino. Ero riuscito a capirlo leggendo una scritta in inglese su uno stinto cartellone di plastica risalente all’ 8754, quando la città asiatica era stata nominata capitale della Cultura Mondiale. Ne ebbi la certezza, poiché vidi passare tanta gente elegante dai tratti orientali.

Questo già mi fece capire che si trattava di un sogno molto realistico, poiché sentivo l’aria che mi entrava dalla maglietta e la terra fredda sotto i piedi.

Però non eravamo nell’ 8754, bensì più avanti nel tempo, poiché bastava guardare le condizioni del cartello.

La cosa che mi colpì di più era l’aspetto degli orientali e delle persone di origini occidentali, ossia simili a me.

Quest’ultimi indossavano, sia donne che bambini che uomini, una tuta da operaio, spesso sporca di olio lubrificante o di fango.

Invece gli orientali, che nel 2019 erano coloro che venivano sfruttati e sottopagati, ora sfoggiavano le loro belle vesti.

Mi rivolsi allora ad uno degli individui di origine occidentale per chiedere alcune informazioni, ma non capiva l’italiano. Per fortuna, un’anziana signora capì approssimativamente quello che volevo dirle e mi indicò un piccolo orologio che segnava data, ora e anno.

Mi misi le mani nei capelli… eravamo nell’ 8888!

Riflettei un attimo sul libro di Orwell e pensai che fosse stata solo una coincidenza che la situazione descritta in “1984” fosse verosimile e che ovviamente io stessi sognando.

Nonostante tutto, mi ritenetti una sorta di “Dante 2.0”, poiché lui era stato scelto per vedere i tre regni dell’oltretomba, mentre io per vedere il futuro.

Camminando, mi imbattei in un uomo di mezza età che parlava italiano e aveva una voce acuta e forte. Lo salutai e, con stupore, lui mi guardò con occhi stralunati. Ricambiò il saluto e si fermò a chiedermi che cosa ci facessi in quel luogo.

Non glielo spiegai nel dettaglio, perché non sapevo bene neppure io che cosa mi fosse capitato, quindi gli accennai solo pochi particolari. Finsi quindi di essere lì da qualche anno. Lui mi guardò stranito e poi mi disse che di italiani ne restavano poche migliaia in tutto il mondo, anche se si trovavano ormai tutti in Asia.

Così lo invitai a raccontarmi tutto: lui annuì e iniziò a narrare.

Nel 4283 l’Unione Europea, già da tempo in crisi, andò in bancarotta poiché aveva speso troppo e investito in operazioni poco redditizie. Tutti i suoi abitanti finirono in povertà; inoltre, gli U.S.A uscirono dalla NATO, facendo in modo che si potessero scatenare guerre incontrollate, omettendo il loro intervento, visto che non era conveniente per loro aiutare gli europei.

I vari paesi progressivamente andarono in rovina e decadenza e tutti i loro abitanti furono costretti ad emigrare nel continente più vicino, l’Asia, che nel frattempo si era sviluppata ed era diventata la più grande potenza economica, commerciale e politica del mondo.

Parallelamente, anche il continente americano conobbe un declino, essendo stato invaso dai cinesi, mentre l’Australia e la Nuova Zelanda erano state colonizzate dai giapponesi.

Così noi occidentali fummo lasciati entrare in Asia, a patto di diventare schiavi dei popoli che ci avrebbero ospitato.

Quindi erano circa 4.000 anni che eravamo sottomessi agli asiatici.

Rimasi un po’ scombussolato, ma poi mi accorsi che era una cosa che aveva una sua logica, ripensando a quello che stava succedendo in Europa nel 2019, ovvero l’anno in cui io stavo vivendo prima di essere catapultato in un altro mondo e in un altro tempo.

Inoltre, l’uomo mi spiegò che l’Africa e l’Europa in quel tempo erano deserte e disabitate: vi rimanevano solo gli animali. Anch’essi, successivamente, vennero catturati da bracconieri e portati nei molteplici zoo delle città inquinate della Cina.

Guardandomi bene, vidi che anche io indossavo la sua stessa divisa da operaio, ma ancora pulita.

Lui mi fece strada verso la fabbrica dove lavorava ed evidentemente, in questo futuro bizzarro, avrei lavorato anch’io lì dentro.

L’industria si chiamava Soleform e produceva una nuova gamma di pannelli solari – la merce più venduta al mondo nell’ 8888 – tecnologicamente avanzatissimi e sottili come un foglio di carta.

Mi colpì emotivamente vedere la gente frustata e maltrattata da un gruppo di impiegati cinesi, che purtroppo erano obbligati a comportarsi così, per ottenere una promozione sul lavoro.

Gino, così si chiamava il signore che mi aiutò, mi fece segno di andare verso un bancone e mi disse che lì mi sarei potuto registrare ufficialmente come operaio dell’azienda. Qui trovai una signorina che mi fece firmare alcune carte, mi tatuò sulla mano un simbolo cinese e con disprezzo mi disse in che reparto andare.

Ero stato assegnato al padiglione 48, ossia quello dove si controllava il funzionamento dei pannelli.

Il lavoro non era durissimo, l’unica cosa brutta era che, se ci si fermava, si veniva frustati dai cosiddetti “cercatori di promozione”. Alla fine della mia prima giornata di lavoro, stremato, mi sedetti su una panca.

Sentii Gino parlare con altri in inglese, ossia la lingua mondiale, poiché quasi più nessuno conosceva le antiche lingue europee. Mi venne incontro tutto contento, annunciandomi che dall’America era arrivato per candidarsi come presidente un cinese-americano. Questo politico, dopo aver viaggiato in tutto il continente, era rimasto scioccato dalle condizioni degli schiavi di origine europea e voleva intervenire, aiutandoli a ricostruire il loro paese, di cui ormai non rimaneva altro che polvere.

Quella prospettiva aveva rallegrato gli animi di quella povera gente.

Passò qualche giorno e improvvisamente arrivò la notizia della vittoria del presidente cinese-americano. Come lui aveva promesso, due settimane dopo, tutta la popolazione europea poté lasciare l’Asia, per tornare verso la madre patria, che da generazioni non aveva neppure potuto conoscere.

Gli architetti e gli ingegneri responsabili della ricostruzione dell’Europa affermarono che nel 9786 tutto sarebbe stato ricostruito e la vita di quelle povere persone sarebbe tornata alla normalità.

Vissi tutta la ricostruzione e vi presi anche parte, collaborando alla rinascita del paese da cui provenivo; e con lo stesso impegno, tutta la gente s’impegnò nella ricostruzione dell’Europa.

In un pomeriggio dell’ 8888, mentre stavo aiutando a costruire le fondamenta di una nuova scuola, una luce improvvisa mi accecò e tutto quello che mi circondava venne inghiottito da una voragine. Mi ero risvegliato in una luminosa camera d’ospedale.

Come Dante, mi ero destato una settimana dopo il mio avventuroso viaggio nel futuro: uscivo da uno stato di trance che nessuno sarebbe mai riuscito a spiegare.

Che cosa ci faceva, però, un simbolo cinese tatuato sulla mia mano?

 

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