Farigliano, concorso “Lo aspetto ancora con disperata speranza”: i testi dei tre vincitori.
lunedì, 04 marzo 2019
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Riflessioni sul libro “Lo aspetto ancora con disperata speranza” di Paola Scola.
Furono anni duri, quelli del secondo conflitto mondiale: l’Italia entrò in guerra il 10 giugno 1940, sotto il comando del dittatore Benito Mussolini, alleato con il tedesco Adolf Hitler.
Un anno dopo, il 22 giugno 1941, il führer decise di invadere la Russia e così in Italia nacque l’ARMIR (Armata Italiana in Russia), formata da migliaia di giovani italiani, che partirono per andare a combattere lungo le rive del fiume Don.
Dopo la sconfitta di Stalingrado, nel gennaio del 1943, l’unione italo-tedesca decise di ritirarsi e i soldati cominciarono una lunga marcia nella neve, in condizioni disumane.
Lungo il loro cammino furono attaccati alle spalle dai russi in due terribili battaglie: Nowo Postojalowka e Nikolajewka. Infine gli ultimi soldati rimasti in vita, furono portati nei campi di prigionia con la cosiddetta “Marcia del Davaj”.
Chissà come soffrirono i soldati durante quel lungo cammino nella neve: non avevano l’abbigliamento adatto e non erano abituati a temperature così basse. Tra i giovani che combatterono sul Don molti erano del Monregalese, partiti lasciando le loro famiglie, il loro lavoro…tutto ciò che avevano.
Questi giovani si trovarono sulle rive di un altro fiume: vissuti sulle sponde del Tanaro, andarono a combattere su quelle del Tanai, come Alessandro Manzoni chiama il Don nel suo “Cinque maggio”.
E chissà, nelle case dei soldati partiti, quanto soffrirono i familiari, le mogli, i figli…
Una parte delle persone che vissero durante il terrore della guerra, e che sicuramente soffrì di più, è quella delle donne.
Queste si trovarono sole tutto ad un tratto, il loro uomo partiva improvvisamente, e dovevano trovare il coraggio per andare avanti, per crescere i figli, simbolo dell’amore con il padre, partito per la patria.
Molte di loro cominciarono ad andare a lavorare, aiutando gli anziani suoceri o genitori, che soffrivano anche loro per la perdita di un figlio: cercavano di fare il possibile per mascherare il dolore davanti ai figli e il loro coraggio era acceso solo dalla speranza di poter, un giorno, riabbracciare l’uomo che era stato loro tolto.
Nel libro “Un anno sull’Altipiano” di Emilio Lussu, indirettamente è spiegato il dolore della madre: quando il figlio torna lei si fa trovare ottimista e sorridente, ma poi il ragazzo, prima di partire, la trova a piangere, addolorata per la sua partenza.
Le donne cercarono sempre di portare allegria nella famiglia preoccupata, però in loro provavano un’angoscia e un dolore terribile, che spesso si doveva sfogare in un pianto.
Le coraggiose donne della Seconda Guerra mondiale, ma in generale quelle di tutte le guerre, possono essere considerate “Penelopi comuni”, poiché erano sempre in attesa del proprio “Ulisse”.
Proprio come il mitico eroe omerico, i giovani soldati partirono per un lungo viaggio, ma solo pochi di loro riuscirono a ritornare nella loro “Itaca”, la propria patria, dove poter riabbracciare l’amata sposa.
La maggior parte dei giovani non fu restituita alle famiglie dai ghiacci del Tanai, però la “disperata speranza” delle donne non si placò: molte di loro continuarono a sperare fino all’ultimo respiro. Come successe nella dolorosa storia di “Mògna Madlinìn”, che aspettò sul balcone, per anni, suo figlio “Gioli”, il quale purtroppo non tornò.
Pochi furono i soldati tornati dalla neve del Don, e quando le donne di un soldato vedevano arrivarne uno, in loro si accendevano due emozioni contrapposte: la speranza e il dolore. Speravano che anche il proprio uomo sarebbe tornato, ma poi si creavano dei pensieri che provocavano dolore: non si sa se sia al sicuro, dove sia, con chi sia… e nasceva così in loro una serie di domande martellanti, a cui nessuno poteva dare risposta.
L’unico modo per mantenere corrispondenza tra le famiglie e i soldati al fronte era la lettera. Ne venivano inviate tantissime, ed erano attese da tutte e due le parti con ansia. Soprattutto a casa, le donne speravano sempre in una lettera, le leggevano e le rileggevano, spesso ci piangevano sopra, chiedendosi se fosse l’ultima o se ce ne sarebbero state ancora.
Diciamo che le lettere sono l’unico modo per rassicurare la famiglia: se c’è vuol dire che il soldato è vivo. Sono molto belle le lettere presenti nel libro della Scola, a volte sono ricche di errori grammaticali, ma alle donne interessa vedere la firma al fondo del soldato, che indica la propria presenza nei suoi pensieri.
Le donne, specialmente le mamme, combattevano fino all’ultimo pur di non far partire il figlio, chiamato a combattere. Questo si può vedere nel caso di René, la cui madre partì e percorse chilometri in bicicletta, il mezzo più usato durante la guerra, per portare il foglio di esonero dalla partenza, ma appena arrivò alla stazione, il treno era partito: chissà il dolore che provò.
La maggior parte dei soldati cadde in Russia ed ebbe “un’illacrimata sepoltura”, infatti furono sepolti dalla neve e dal vento che cadevano su di loro, come cadeva sul cuore delle donne il dolore di non sapere dove riposa la salma del loro eroe, sacrificato per la nazione.
Oltre alle donne, soffrirono molto anche i figli dei soldati partiti, molti dei quali non li avevano neppure conosciuti. Erano le madri a infondere in loro la speranza, raccontando loro delle storie sul padre. I figli furono importanti per le donne, poiché contribuirono a dare una motivazione al perché continuare ad andare avanti.
Nelle nostre zone, nel Cebano-Monregalese, la seconda guerra mondiale si svolse con i partigiani. Essi spesso venivano proprio aiutati dalle donne. Durante le loro operazioni però, molti edifici venivano distrutti, e così davanti alle famiglie, si trovava un nuovo problema. Spesso i “capi famiglia” erano diventate le donne ed ora si ritrovavano senza casa, senza cibo…con bambini e anziani.
Per fortuna ci fu molta solidarietà tra loro, si aiutavano e si consolavano a vicenda: era importante saper di avere al proprio fianco qualcuno su cui contare, a cui confidare le proprie paure, con cui piangere.
Proprio a Farigliano, alcune famiglie si ritrovarono senza casa, infatti il 5 luglio del 1944, durante la mietitura del grano, un gruppo di tedeschi, incendiò delle cascine. Ora a ricordo di questo incendio è presente una casetta. E sul “ciuchè”, in ricordo della strage del Don c’è una targa del 2011.
Nelle nostre zone, Pievetta è stata colpita particolarmente dalle rappresaglie nell’estate del 1944. In uno scritto che ricorda la sanguinosa rappresaglia si legge “…parecchie spose aiutano a scavare quelle del marito o lo compongono al meglio senza bara per l’eterno riposo…”. Questo fa capire che le donne hanno fatto di tutto per non lasciare incustoditi, nelle mani del nemico, le salme dei congiunti, e si sono messe loro a prepararli per il lungo viaggio che hanno intrapreso verso l’eternità.
Tutte queste rappresaglie uccisero molte persone e distrussero interi paesi. Le vite e le case vengono paragonati nella celebre poesia di Giuseppe Ungaretti “San Martino del Carso”. È proprio la prima strofa di questa poesia che fa ricordare la cascina delle “Bütalle”, appartenente alla famiglia Suria: della casa, oggi abbandonata, rimane soltanto una piccola parte.
Alle case e alle vite, si potrebbero aggiungere i cuori delle donne, poiché anche questi sono stati straziati dalla guerra. Il dolore è ciò che le accomuna tutte durante i conflitti, al di là della nazionalità: tutte hanno sofferto e sperato allo stesso modo.
Si ricorda talvolta il detto latino “Bellum dulce inexpertis”, cioè che la guerra è bella per chi non la conosce direttamente, come dice anche Emilio Lussu nel suo libro. In questo caso la guerra può essere paragonata al dolore e alla tristezza delle donne: nessuno può capire un “grumo di dolore” così denso, grande e profondo, se non lo prova in prima persona.
Cagnassi Sabrina (classe III F)
La guerra è uno scontro terribile fra più nazioni, che serve solo a diffondere odore di morte e disperazione e a far soffrire chi non ha fatto niente. Tra queste guerre, una che coinvolse anche l’Italia è quella combattuta tra il 1939 e il 1945, la Seconda Guerra Mondiale. L’Italia entrò in guerra nel 1940, guidata da un dittatore, Benito Mussolini. Questo conflitto costò sei anni di sofferenza per tutte le nazioni coinvolte.
Molto più lontano, anche qualcun altro stava combattendo e soffrendo: le donne rimaste a casa ad attendere i loro uomini partiti per il fronte. Le donne che, determinate, sono andate avanti e solo grazie alle loro forze hanno vissuto veramente. Non bisogna ricordarle pensando che fosse semplice prendersi cura da sole della famiglia, della terra o di un’azienda. Non bisogna pensarla in questo modo, perché sarebbe un atteggiamento infantile e vorrebbe dire non capire quello che accade, comportarsi come bambini che non si interessano minimamente e non sanno ancora niente della vita. Essa infatti, non è solo rose e fiori. Può anche essere rabbia e sofferenza. L’aspetto che mi ha colpito di più è il fatto che queste donne, alle quali venivano tolti i propri cari, non hanno detto “no” e non si sono accasciate a terra, pensando di non potercela fare. Al contrario, hanno alzato la testa e hanno detto: “Io vado avanti!”.
Quel dolore nei confronti dei loro cari, la cui sorte era loro ignota, l’hanno lasciato da parte e si sono rimboccate le maniche. La speranza, infatti, non abbandona mai gli audaci ed i coraggiosi. E direi che queste donne sono state proprio così. Per loro la speranza era una fonte inesauribile di pensieri che i loro cari sarebbero ritornati, che li avrebbero un giorno finalmente potuti rivedere, abbracciare. E, anche se non tornavano, testardamente ma con molto coraggio continuavano a ripetere e a ripetersi nella mente: “Tornerà, tornerà, ne sono sicura”.
Secondo me, anche dopo la morte non hanno ceduto e, in lontananza, hanno visto una luce. Con molta fiducia l’hanno seguita e, non appena hanno attraversato quella distesa risplendente, le prime vere lacrime di gioia sono sgorgate dai loro occhi che si stavano chiedendo se quello che vedevano non fosse solo un sogno. Oltre quella scia c’era il parente tanto atteso che, sorridente, piangeva a sua volta. Le parole in quel momento non sarebbero servite: è bastato un semplice e caloroso abbraccio per dimenticare ciò che era successo prima e per ricongiungere le anime di quelle persone che si erano lasciate nel dolore e nella disperazione, ma si erano ricongiunte nella pace e nella serenità. Mano nella mano, ora camminano felici. Niente più guerre, niente più pianti. Solo un luminoso e splendido sole che illumina i sorrisi di coloro che sono tornati a casa.
Vittoria Marenco (classe II F)
Il libro di Paola Scola “Lo aspetto ancora con disperata speranza” è uno dei moltissimi volumi che parlano della Seconda Guerra Mondiale, ma è il suo punto di vista che lo rende unico: la guerra vista dalle donne, gli “anelli forti” della società, come le definì Nuto Revelli; le donne che riuscivano a sfamare la propria famiglia lavorando nei campi sotto il sole cocente, che riuscivano a tirare su i propri figli senza far sentire loro la mancanza di un padre, talvolta visto solo in una fotografia, che riuscivano a piangere solo la sera, nascondendo il proprio dolore. Donne che piangevano i figli o i mariti partiti per la guerra e mai più ritornati, dati per dispersi.
Forse sapere che un parente è disperso è peggio che saperlo morto, perché nonostante si sappia razionalmente che quella persona non c’è più, il cuore continua a sperare di una vana speranza disperata, che per esempio ha spinto Mògna Madlinìn (Zia Maddalena) a continuare a preparare le “tüme” per suo figlio Gioli, partito per il fronte, che spinse Lucia Bottero a preparare la cena per i suoi figli scomparsi ogni sera, che aveva spinto tante, tante donne ad aspettare in ogni singolo attimo un ritorno, anche solo una lettera, una notizia. L’anima addolorata delle donne che attendevano i propri cari in modo così continuo mi ricorda l’attesa infinita dei tormentati artisti romantici, anche se in questo caso si tratta di un’attesa paragonabile a una sorta di Sehnsucht verso l’abisso, di un climax discendente di dolori.
Anche se traumatica la notizia di una morte annulla questo sentimento di sospensione nell’incertezza.
Pensando a ciò sovvengono alla mente i famigliari dell’anziana signora Gina Macario alla quale, affinché avesse un po’ di pace negli ultimi anni di vita, i parenti avevano simulato la morte del figlio Beppe, considerato disperso.
Questa silenziosa guerra interiore, assieme alla fatica del lavoro per la sopravvivenza durante il conflitto, questa disperata speranza rappresenta nella sua cruda e tagliente pienezza la guerra delle donne.
Cigliano Lorenzo (classe III F)